Nella Roma del XVI e del XVII secolo era pratica assai ricorrente assistere a punizioni corporali e ad esecuzioni capitali inflitte ai condannati. Patiboli con la trave della forca, il palco della mannaia, la gogna o berlina erano presenti nelle principali piazze che il giorno dell’esecuzione erano in grado di accogliere una gran folla di cittadini.
L’esecuzione della pena di morte assumeva infatti la funzione di monito e di deterrente nei confronti della popolazione, in particolare di quelle fasce più povere che potevano più facilmente incappare in attività illegali. Tra i luoghi più utilizzati per le esecuzioni vi erano la piazza antistante Castel Sant’Angelo e piazza del Popolo; Campo de’ Fiori era invece riservato alle condanne al rogo, come quella celebre di Giordano Bruno nel 1600. Le esecuzioni assumevano spesso un carattere che definiremmo oggi particolarmente scenografico, quasi fastoso, con i tre principali “attori”: il condannato, il boia e il suo fido assistente.
Arciconfraternita di San Giovanni Decollato
Il condannato riceveva il conforto dei membri di alcune particolari confraternite e a Roma le principali erano certamente quella di San Girolamo della Carità che assisteva i condannati e quella di San Giovanni Decollato, detta della Misericordia, che assisteva i carcerati. L’importanza di quest’ultima arciconfraternita crebbe sempre di più durante gli anni, tanto che nel 1540 papa Paolo III conferì ai confratelli il permesso di graziare un condannato nel giorno della festa del loro Santo Patrono e di aggregare a sé altre compagnie, estendendo ad stesse i privilegi e le indulgenze di cui lei stessa beneficiava. Alla vigilia di un’esecuzione i confratelli uscivano dalla propria sede, la Chiesa di San Giovanni Decollato e avvolti nei loro mantelli neri, si dirigevano verso le carceri.
Le ultime ore del condannato
Il loro cammino era rischiarato dal lume di una lanterna, mentre il suono di una campanella agitata da uno dei confratelli annunciava alla gente che il giorno successivo un detenuto sarebbe stato giustiziato. Giunti in prigione, trascorrevano la notte insieme al condannato per offrire conforto ma anche per tentare di estorcere una confessione, talvolta perfino con la forza, avvicinando per esempio il fuoco alla pelle del detenuto per simulare la minaccia dell’Inferno! Il malcapitato di turno solitamente cedeva e si confessava, a volte anche crimini mai commessi.
I confratelli si occupavano inoltre di redigere il testamento e di celebrare una piccola messa dispensando la comunione. All’alba accompagnavano il prigioniero in processione fino al patibolo e dopo l’esecuzione recuperavano i corpi dei giustiziati morti in pace per dare loro sepoltura: i penitenti più abbienti venivano condotti nelle proprie tombe; mentre quelli più poveri trovavano eterno riposo venendo posti nei sotterranei del chiostro della chiesa di San Giovanni Decollato.
Le salme invece degli eretici impenitenti venivano gettate in una fossa comune nei pressi del Muro Torto! Quando nel 1889 si decretò la fine delle esecuzioni capitali, la confraternita cessò di svolgere parte del proprio lavoro, non quello però legato all’assistenza dei detenuti come deciso nel nuovo statuto del 1904, divenendo quindi un ente morale ancora oggi funzionante.