Nel Rione Monti, quartiere tra i più antichi di Roma, impossibile è non rimanere incantati davanti alla suggestiva scalinata conosciuta in città come la Salita dei Borgia. E’ questo un luogo considerato – già in antico – particolarmente “scellerato”, almeno secondo quanto racconta la leggenda: è qui infatti che il re Servio Tullio fu assassinato dalla figlia per favorire l’ascesa al trono del suo amato, il temibile Tarquinio il Superbo!

Il nome della salita però ricorda i Borgia, che qui vissero proprio nel palazzetto al di sopra della scalinata. Non a lungo in realtà, ma tanto bastò a Lord Byron per immaginare affacciata alla finestra del palazzo, proprio la graziosa Lucrezia Borgia.

 

La storia della Basilica di San Pietro in Vincoli

Superata la ripida scalinata, si giungerà in una graziosa piazzetta su cui si affaccia l’imponente San Pietro in Vincoli, una delle basiliche più antiche di Roma. Edificata nel 442 per volere dell’imperatrice Licinia Eudossia, fervente cristiana moglie di Valentiniano III, venne costruita nei pressi delle Terme di Tito all’Esquilino, esattamente al di sopra di un più antico titulus cristiano.

La Basilica fu fatta erigere con lo scopo di contenere le preziose catene, dette vincula (termine da cui prende appunto il nome l’edificio), che avevano imprigionato l’apostolo Pietro a Roma nel carcere Mamertino insieme a quelle relative alla sua prigionia in Terra Santa, che il patriarca di Gerusalemme Giovenale aveva regalato alla madre della donna, l’imperatrice Elia Eudocia. Leggenda vuole infatti che, quando papa Leone I prese in mano la coppia di catene per confrontare le loro estremità, queste si siano congiunte da sole, in modo inseparabile, attestando così la loro autenticità. Sono proprio queste catene quelle visibili oggi nel reliquiario posto sotto l’altare maggiore.

 

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Gli interventi di papa Giulio II e la Basilica attuale

L’edificio venne restaurato più volte nel corso dei secoli, anche se gran parte del suo aspetto attuale risale agli interventi cinquecenteschi voluti da papa Giulio II della Rovere, così come la realizzazione dell’annesso convento con lo splendido chiostro opera di Giuliano da Sangallo, oggi parte della Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Roma La Sapienza. La facciata della chiesa è preceduta da un portico a cinque arcate, mentre l’interno è diviso in tre navate da 20 colonne di epoca romana, probabilmente provenienti dal vicino complesso del Portico di Livia e già appartenute alla prima basilica paleocristiana.

 

 

Arte in Basilica: Guercino, Domenichino e Michelangelo

Tra le molte importanti opere d’arte custodite al suo interno vi sono il Sant’Agostino del Guercino, il Ritratto del Cardinale Margotti del Domenichino ed il sommo capolavoro di Michelangelo, la monumentale Tomba di papa Giulio II con il potente Mosè. Si tratta di un’opera che fu definita dallo stesso artista una tragedia: Michelangelo infatti vi lavorò per ben 40 anni, dal 1505 al 1545, modificando sei volte il progetto! Non è difficile immaginare come questo abbia provocato non solo l’ira del pontefice, che morì prima di vedere completata l’opera, ma anche quella dei suoi successori, che si presero invece l’onere di portare avanti i lavori!

 

 

 

Il Mosè di Michelangelo: “perché non parli”?

Il monumento del pontefice, in origine, fu concepito come un vero e proprio mausoleo adorno di circa quaranta statue e pensato per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Finì invece per essere un ben più modesto monumento posto all’interno di una basilica secondaria con “appena” sette statue, di cui tre realizzate per mano del maestro, ma solo il Mosè può definirsi un vero e proprio capolavoro, come sosteneva lo stesso Michelangelo: “questa sola statua è bastante a far onore alla sepoltura di papa Giulio”.

In effetti l’imponenza di quest’opera in marmo è notevole – misura infatti più di  2,30 metri di altezza – anche se forse il segreto della sua bellezza risiede più nella perfezione esecutiva e nel modellato virtuosistico. Un Mosè plasmato nella forma in maniera esemplare: una torsione del corpo profonda che regala un’immagine di vigore e forza, potentissima, in contrasto con i morbidi panneggi delle vesti e la delicatezza della barba fluente, che secondo la leggenda nasconderebbe i lineamenti di papa Giulio II e di una donna. In mano Mosè porta le tavole della Legge rovesciate, segno distintivo della sua missione e monito per tutti i credenti.

 

 

Curiosità. Ma sono corna?

Michelangelo pose sul capo di Mosè un paio di corna, secondo quella che era l’iconografia tipica dell’epoca. Come mai? Ancor prima di Michelangelo infatti, per un errore di trascrizione, la parola ebraica karan o karnaim (che significa “raggi”) divenne keren e cioè “corna”: da quel momento Mosè, invece di essere circondato da raggi di luce, divenne portatore di un bel paio di corna, a cui ovviamente nessuno attribuiva il significato di tradimento!