Tra i capolavori esposti a Galleria Doria Pamphilj, vi è un dipinto che certamente si distingue da tutti gli altri per l’originalità del soggetto. Quale? “Lotta di putti” in anni recenti attribuito definitivamente a Guido Reni e realizzato nel 1625 circa, quando cioè l’artista era ormai tra i più ammirati e richiesti di Roma, avendo già lavorato per importanti famiglie e celebri pontefici come Paolo V Borghese e Gregorio XV Ludovisi.
Lotta di putti – la scena rappresentata
Nell’opera si riconoscono tre pallidi putti ritratti con le loro piccole alette mentre sembrano giocare con altre figure a loro del tutto simili, tre putti senza ali e dalla pelle ambrata, più scura. Guardando però con più attenzione il loro atteggiamento atteggiamento e soprattutto le loro espressioni facciali, si nota come i tre pallidi putti stiano in realtà subendo una feroce aggressione da cui, urlando e dimenandosi, cercano di difendersi. Gli altri, invece, sono quasi impassibili, come incapaci di comprendere la violenza perpetrata. Cosa significa dunque tutto ciò?
Il significato dell’opera
Varie le interpretazioni attribuite al quadro. Sempre valida la lettura del dipinto come la classica lotta tra “amore sacro e amor profano”, tanto cara agli uomini di arte e cultura del Seicento. Ad un amore casto, quasi emotivo e non carnale, impersonato dai pallidi putti che traggono la loro origine da Eros, il dio dell’Amore, si contrappone l’amore fisico, istintivo ed animalesco, da riconoscere nei putti dall’incarnato più scuro. E nell’opera sembrano avere la meglio questi ultimi, in totale antitesi con i sentimenti e la Ragione, dono di Dio, che solo chi prova il “vero” amore può avere.
E’ però assai probabile che il Reni abbia dipinto questi putti traendo spunto da un episodio saliente della sua stessa esistenza. L’opera rappresenta infatti la “famosa lotta di Amoretti e Baccarini” donata dall’artista al marchese Facchinetti di Bologna in segno di ringraziamento. Come mai? Secondo il racconto del biografo Malvasia del 1678, sembra che Reni fosse finito in prigione a seguito di una lite con l’Ambasciatore di Spagna e che fu liberato proprio grazie all’intervento del marchese!
Secondo molti studiosi, l’artista avrebbe quindi deciso di rappresentare in chiave classicheggiante, grazie alla presenza dei putti, e come sfogo personale, una lotta di classe fra nobiltà e classi sociali più disagiate. Il soggetto infatti era già detto in antico “Lotta di putti plebei contro putti nobili”, una precoce rappresentazione di scontro sociale, dove i più scuri popolani hanno la meglio sui nobili pallidi. Una lotta tra putti in corso, in cui i vincitori sono già decretati: i nobili subiscono, mentre i plebei hanno la meglio!
Un soggetto straordinariamente forte e potente che nella prospettiva politica offre un’ulteriore interessante spunto: la lotta entra nei saloni della nobiltà che la apprezza e la pratica; una nobiltà consapevole che i putti non alati sono sempre pronti a combattere, per rivendicare quello che è stato tolto loro. E da tutto ciò, non si può escludere anche un’interpretazione più ampia: la lotta tra le dualità che costituiscono l’esistenza stessa dell’uomo. E così è possibile osservare il quadro come la metafora della lotta tra bene e male, tra ciò che è spirituale e ciò che è materiale, tra puro ed impuro.
L’opera, nota anche attraverso due copie, giunse a Roma nella dote di Violante Facchinetti, che sposò nel 1671 Giovan Battista Pamphilj (figlio di Camillo e Olimpia Aldobrandini e quindi nipote di papa Innocenzo X) e da quel momento impreziosisce le straordinarie pareti dell’imponente Galleria su via del Corso.