Tra le opere più potenti della Galleria Nazionale merita una particolare menzione l’Ercole e Lica di Antonio Canova.
La committenza
La lunga gestazione del gruppo, commissionato nel 1795 da don Onorato Gaetani duca di Miranda, dignitario della corte reale di Napoli, che poi però vi rinunciò per motivi finanziari, si avviava alla conclusione nel 1801 con l’impegno di acquisto da parte del ricco banchiere Giovanni Torlonia. Tuttavia, fu solo quasi dieci anni dopo, e quindi verso 1813/1815, che il gruppo finalmente completato, fu collocato nel Palazzo Torlonia a piazza Venezia, in uno spazio appositamente progettato e decorato.
Interessante il dipinto di Martino de Boni (oggi al Museo di Roma Palazzo Braschi) che mostra Giovanni Torlonia con la moglie, Anna Maria Schulteis, e i cinque figli mentre osservano un disegno del gruppo Ercole e Lica presentato da Canova, anche lui raffigurato nella scena; un’opera che sembra eseguita per celebrare appositamente la “nuova” prestigiosa committenza.
Il dialogo con l’Ercole Farnese e le altre opere
L’opera tuttavia è un’invenzione che potremmo definire direttamente collegata alla Napoli di don Onorato, città in cui è conservato il celebre Ercole Farnese, di cui lo scultore probabilmente intendeva creare un equivalente moderno.
Per quanto riguarda la soluzione compositiva, Canova certamente guarda anche un altro marmo della stessa collezione, il cosiddetto Atamante e Learco (o Ercole e Troilo oppure Commodo), anche se nella postura di gambe e torso può richiamare il gruppo Ludovisi che raffigura il Galata Suicida a Palazzo Altemps.
- Ercole
- Atamante e Learco
- Galata Suicida
Il “Tempo della Pazzia”
Curioso è anche l’intreccio politico di Napoli e Roma durante gli anni di realizzazione del gruppo scultoreo. Il Regno di Napoli fu invaso dai francesi nel gennaio del 1799, mentre nel maggio del 1798 Canova abbandonava Roma governata da una Repubblica giacobina sotto tutela di truppe francesi d’occupazione, per trasferirsi nel paese natale di Possagno. Fu Canova stesso a chiamare questi anni di radicali sconvolgimenti il “tempo della Pazzia”, quella di Ercole appunto che scaglia Lica. Per la prima volta, con il gruppo di Ercole e Lica, si assiste a una precisa volontà di connotare ideologicamente un’opera d’arte.
Per i francesi occupanti di Roma, che vedevano il gesso colossale nello studio di Canova, significava la monarchia scagliata dalla Francia rivoluzionaria; per l’artista invece il significato poteva essere tranquillamente capovolto. Il gruppo avrebbe infatti potuto simboleggiare la “democrazia” la “licenziosa libertà” (Lica) abbattuta dalla “forza sovrana” (Ercole), recuperando il tradizionale valore simbolico della figura di Ercole in cui avevano amato identificarsi i sovrani europei dell’ancien régime.
Il mito di Ercole e Lica
Ma cosa raffigura precisamente questo gruppo scultoreo che Canova sceglie di montare su perni per poterlo ruotare ed esaltare i molti diversi punti di vista? Le ultime ore di vita di Ercole quando, dopo aver indossato la camicia avvelenata dal sangue di Nesso portata dall’ignaro Lica, impazzisce e scaglia il giovinetto in mare. L’eroe è colto nell’atto di sollevare un piede dello sfortunato ragazzo che, invano, oppone resistenza, aggrappandosi all’altare alle spalle dell’eroe e alla pelle di leone, abbandonata ai suoi piedi. Lica appare sollevato con forza da terra e sospeso in aria un attimo prima di essere scagliato nei flutti del mare.
Il gruppo, con la torsione ad arco dei due corpi nudi, sprigiona una grande intensità energica, che ha il suo apice nella faccia urlante del giovinetto e nei tratti adirati di Ercole, incorniciato in una folta barba di riccioli e vestito di un sottilissimo velo destinato a ricoprire la massa dei torniti muscoli. Canova sceglie quindi di fissare nella pietra il momento culminante del mito, l’eroe gigantesco che si configura come un meccanismo in tensione che sta per sprigionare il massimo di energia. E questo risultava già un aspetto preponderante in corso d’opera, mentre ancora lavorava sul modello nel lontano 1795, quando Luigia Giuli, governante del Canova, così descriveva l’operato del maestro in una lettera all’architetto veneziano Giannantonio Selva: “se vedeste, amico, che macchina, fa veramente terrore, e se tanto fatica a lavorare nel modello in creta, che sarà poi nel marmo?” L’immenso capolavoro che possiamo oggi ammirare alla Galleria Nazionale!
Controlla nel programma mensile quando è prevista la prossima visita guidata alla Galleria Nazionale per ammirare dal vivo questo straordinaria capolavoro artistico!