Esposto oggi a Palazzo Barberini, il Narciso è uno dei quattro capolavori di Michelangelo Merisi, contenuti nella collezione, insieme a Giuditta e Oloferne, al San Giovanni Battista e al San Francesco in meditazione (esposto a Galleria Corsini). Nessun artista era riuscito a tradurre in pittura il mito del Narciso come Caravaggio si accinse a fare allo scadere del Cinquecento, in questa straordinaria opera datata 1597/1599, traendo la propria ispirazione dalla versione narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.
Il mito di Narciso
Il ragazzo, figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, possedeva una straordinaria bellezza in grado di attirare numerosi amanti, tutti però respinti. Tra questi vi era anche la ninfa Eco che, non corrisposta, si lasciò consumare dal dispiacere finché di lei non restò che la voce. Intervenne allora la dea Nemesi, invocata da uno degli infelici corteggiatori di Narciso, e decise di punire il giovane causandogli la medesima sofferenza da lui inferta. Così un giorno, stanco dopo la caccia, in un fitto bosco, Narciso vide una fonte d’acqua cristallina e si avvicinò per bere, ma “mentre cercò di soddisfare la sete, gliene crebbe dentro un’altra”, scriveva Ovidio. Infatti, scorta la sua immagine riflessa, se ne innamorò. Dopo aver a lungo e invano cercato di toccare la figura apparsa sulla superficie dell’acqua, Narciso comprese la propria condizione, si disperò fino a morire sopraffatto dal dolore (nelle versioni greche morì invece suicida trafiggendosi con la spada o annegato nel tentativo di raggiungere la propria immagine). Quando le Naiadi arrivarono alla fonte per compiere i riti funebri, trovarono un fiore al posto del suo corpo, quello che ancora oggi porta il suo nome.
Il Narciso di Caravaggio
L’iconografia del mito di Ovidio prevedeva molti elementi, ma Caravaggio decide di cancellare tutto per cogliere il momento esatto in cui Narciso si chinò sulla fonte e, rapito, tentò di afferrare la propria immagine. Scompaiono i dettagli ai quali gli artisti precedentemente, negli stessi anni, e anche più tardi, erano ricorsi e ricorreranno per raccontare il mito.
Non vediamo Eco, né i fiori che da Narciso prendono il nome, né i cervi, il cane o l’arco (attributi del giovane cacciatore) e nemmeno il lussureggiante paesaggio boschivo, che è nascosto dalla penombra, da cui emergono soltanto le due immagini del ragazzo, una sull’altra, in una insolita costruzione ‘a carta da gioco’, dove la parte inferiore speculare a quella superiore è il risultato di un ribaltamento della tela di 180 gradi, proprio per ottenere la figura riflessa.
La bocca dischiusa, rende l’apice dello struggimento di Narciso che, resosi conto della natura paradossale del suo sentimento, si lascia morire. La trovata del ginocchio nudo fa inoltre da centro di attrazione visiva e l’ampia manica a sbuffo accompagna lo sguardo verso la mano immersa nell’acqua nel tentativo di abbracciare quella forma ingannevole di sé, proprio come narrato nelle Metamorfosi.
L’innovazione iconografica di Caravaggio
E proprio la portata dell’innovazione iconografica e la potenza espressiva del quadro sono sempre state tra i principali argomenti avanzati a favore della sua attribuzione a Caravaggio. Nel corso del Novecento infatti, le attribuzioni si alternano su diversi caravaggeschi: da Orazio Gentileschi a Bartolomeo Manfredi, fino a Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino. Nel 1913 Roberto Longhi, lo storico dell’arte che fu il principale artefice della riscoperta del Caravaggio durante lo scorso secolo, vide il quadro e lo indicò come autografo del Merisi, definendo l’opera “una delle più personali invenzioni” del grande pittore. Un restauro condotto nel 1995 ha fornito indizi più concreti a sostegno di questa ipotesi: alcune indagini radiografiche, evidenziarono infatti la presenza di un’incisione tracciata con il manico del pennello sul fondo di pittura ancora fresco, un segno tipico del modus operandi di Caravaggio che, almeno nelle sue opere meno affollate, pare avesse l’abitudine di fare a meno dei disegni preliminari. Inoltre, il dettaglio delle maniche a sbuffo e il particolare ricamo sul corpetto di Narciso, tanto di moda nel tardo Cinquecento, tornano identici nell’ambito della Maddalena Penitente che il Merisi aveva realizzato nel 1595, oggi a Galleria Doria Pamphilj.
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